Basta Sacchi!
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Ma non se ne rende conto del danno che fa al calcio Arrigo Sacchi con ciò che scrive? Non gli passa nemmeno per l'anticamera del cervello che l'Italia quadristellata non è andata due volte ai Mondiali? D'accordo, può pensarla come gli pare, ma i sacchiani, purtroppo, fanno danni incalcolabili. Che cosa vuol dire quando scrive: "La Lazio e il Milan non hanno giocato un calcio europeo. Il Feyenoord è stata una squadra moderna, la Lazio no. E il Milan, lungo, era spesso sorpreso dal contropiede del PSG. O l'Inter pratica un calcio che non è completo, non è da standard europeo, mentre il Napoli non fa spettacolo, non diverte la gente. Il calcio, non mi stancherò di dirlo, è uno sport offensivo e di squadra, mentre lo concepiamo come difensivo e individuale".
"Perché lo fanno scrivere?" si domandano due grandi personaggi, quando leggono gli articoli e telefonano puntualmente all'amico giornalista della "rosea". Perché questo signore, lasciato il Milan, non ha mai vinto? Perché nella partita più brutta di sempre, Milan - Medellin 1-0, finale Intercontinentale, si contarono mille fuorigioco e cinquecento in un Real - Milan 1-0? Non era uno sport offensivo? Eppure col calcio, a suo dire, propositivo abbiamo subito l'affronto più incredibile: a casa nel 2018 e nel 2022. Anche Passarella e Dunga ci hanno tacciato di stupidità per aver cambiato spartito. Difesa e contropiede era la tattica che tutti temevano. Avevamo i difensori più forti e poi, come ricordavano i sudamericani, il gol arrivava, facendo piangere gli avversari.
Erano i tempi dei migliori portieri, difensori e centrocampisti. I settori giovanili, guidati da maestri, portavano ogni anno più di una speranza nella rosa delle prime squadre. A forza di raccontare novelle siamo caduti tanto in basso da temere un'ulteriore assenza al Mondiale 2026. Grazie a chi? D'accordo, la pochezza dei nostri dirigenti non va sottovalutata, anche se la causa principale, oltre a chi parla di calcio europeo, va trovata nella scuola di Coverciano, osannata senza motivo, perché la rivoluzione culturale deve partire dai corsi per manager, allenatori e istruttori, l'unico modo per tornare ad occupare il posto che ci compete e che troppi hanno dimenticato.
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